Domenica 18 novembre inizia come iniziano le domeniche di inverno: luce limpida e aria argentina, odore di terra e fumo di legna. La mattinata trascorre con la vivacità imposta dal freddo, i piedi camminano svelti, le mani si sfregano e trasportano secchi di legna. Il sole filtra nitido oltre le finestre e oltre le tende, fa rilucere noci e mandarini sulla tavola imbandita per il pranzo. Poi si mangia e il tempo prende a sonnecchiare. Il tepore di casa ti avvolge beffardo, guarda al gelo fuori e guarda te, e tra le coccole ti chiede Cosa esci a fare? È che la festa dei morti era due settimane fa, e noi siam vivi, e oggi gioca il Grosio.

Alla Ganda arriva l’Ars Rovagnate, avversaria qualche stagione fa in Seconda Categoria, un nome che odora di classici latini e di prosciutto. Noi giochiamo il 4-4-2 con Pota in porta, dietro Alex-Matte-King-Roby, a metà Gila-Mare-Gioele-Viso, davanti Cicala e Nick. Loro si schierano con una sorta di 4-2-3-1 asimmetrico: c’è un “sottopunta” dietro il centravanti, e l’ala destra che spesso e volentieri entra verso il campo e fa un po’ la terza punta. Entrambi hanno 24 anni e una pelata che vira agli “anta”, e ci fanno un po’ penare: per ruolo e per istinto si posizionano spesso fuori dai radar dei marcatori, e spesso ci anticipano e ci prendono sulla corsa e ci creano difficoltà. Lisciamo il pelo al gol con un paio di colpi di testa di King e concediamo loro due occasioni in infilata, quelle palle che perdiamo a metacampo e gli avversari ci corrono incontro in contropiede e non c’è filtro e la difesa scappa sempre un secondo in ritardo e ci infilano e sono davanti al portiere: succede due volte, Pota salva due volte. Ma la terza è fatale. Ce la prendono sulla zona sinistra e con due-tre passaggi in verticale sono al limite dell’area, crossano sul secondo palo dove l’ala destra di cui sopra si libra in area con la grazia stagionata di un prosciutto crudo appeso al banco dei salumi, e di testa appoggia facile in rete. È passato un quarto d’ora e siamo sotto, e proviamo a organizzare gioco ma non ci esce nulla: non usiamo il centrocampo, e i due modi che abbiamo di avanzare sono le corse sulle fasce o i lanci lunghi di King. Il fatto è che non c’è il fisico possente di Python a pulir palle e fare sponde, rimane solo la vertigine del nostro calcio verticale e la frenesia, e raramente riusciamo a strutturare delle azioni vere e proprie. Tuttavia rischiamo poco, e scorre sottopelle un’elettricità che ci fa sperare nella scossa. Fine primo tempo.

La NATO ha un alfabeto codificato per lo spelling. Cioè: anziché “La-D-di-Domodossola e la-O-di-Otranto”, alla NATO si dice “D-for-Delta and O-for-Oscar”, e durante la guerra del Vietnam i Viet-Cong li si chiamava “Victor-Charlie”, divenuto per brevità “Charlie”. C’è una scena di Apocalypse Now in cui il colonnello Kilgore discute con i soldati un futuro attacco, e chiede di portare la tavola da surf per cavalcare le onde vicine alla base nemica. Un soldato obbietta, e lui lo zittisce brutale: < Charlie don’t surf! >. La battuta diviene iconica, l’anno seguente i Clash ne fanno il titolo di una canzone di protesta. Negli anni Novanta è ripresa dall’artista Maurizio Cattelan, che chiama così una propria scultura: un adolescente seduto al banco di scuola, rivolto verso la finestra, le mani inchiodate al piano da due matite. Dalla prepotenza imperialista americana all’oppressione educativa dei giovani italiani, con le stesse quattro parole.

Inizia il secondo tempo, e mister Polattini prova a dare la scossa che speriamo cambiando l’intera fascia sinistra: fuori Roby e Viso, dentro Leonardo e Pane. E dopo due minuti Pane prende rigore, che Nick trasforma nel suo modo lento e chirurgico nel gol del pareggio. Gli avversari protestano, dicono non l’ha toccato e forse hanno ragione, è la solita liturgia del post-rigore che si svolge sempre e in ogni campo. Ma stavolta l’arbitro ci crede: un minuto dopo la loro ala sinistra sta uscendo dalla nostra area accompagnata da Alex, si danno un po’ di spalla, innocui tutti e due. Ma l’arbitro fischia, indicando il dischetto solerte come un bambino appena sgridato dalla mamma: rigore, gol, 2-1. Passano forse altri due-tre minuti, loro stanno attaccando e noi ribattiamo, e in area restano King e il centravanti: non si capisce bene cosa succeda, la palla è lontana, forse il centravanti trattiene il piede a King, forse King lo scalcia, forse il centravanti lo strattona, forse King lo strattona. Una nebbia di “forse” sospesi nell’aria immobile nel momento in cui l’arbitro fischia, e l’aria fredda brucia su narici umide e occhi incerti, l’aria si tende e stira e freme nell’attesa, poi scoppia a ridere e piangere insieme quando l’arbitro espelle King e dà rigore. Segnano ancora, 3-1. Sotto di due gol e in dieci uomini, potrebbe andare peggio? Certo che sì: trasformiamo la partita in una corrida di rincorse e ripicche con l’arbitro, anziché lasciare che sia una partita malgirata di cui l’arbitro è un fattore, tanto quanto la qualità del campo, gli avversari,  le condizioni del tempo. E come da copione arriva la seconda espulsione (Mare), e una carretta di cartellini gialli che ci imbrattano una fedina penale già lurida. L’arbitro ha sbagliato, ha punito noi e perdonato la loro malizia, i due rigori erano assurdi, l’espulsione di King ha girato la partita: tutte cose vere, e neanche una che dipenda da noi.

I Baustelle hanno ripreso e ribaltato la citazione di Apocalypse Now nella famosa canzone Charlie fa surf. Parlano di un ragazzo oppresso dall’autorità, in cerca un equilibrio “che non è mica facile”. Il ragazzo si dibatte tra musica, chiesa e sport. Si rassegna e si ribella, manda tutti a farsi fottere. Ma alla fine non cresce oltre i suoi anni, e rimane inchiodato al banco di scuola.

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