Adesso dormi, tesoro, che si è fatto tardi.
Papà.
Che c’è.
Non ho sonno.
Non hai sonno.
Mi racconti una storia?
Ti racconto una storia? Ma è tardi, è ora di dormire.
Dai papà. Una sola. Una nuova.
Una storia nuova. Una soltanto, però. Ti ho mai raccontato la storia del Grosio?
No, mai.
Bene. Allora ascolta.

Mi ricordo i colori. Il mondo quel giorno sembrava un quadro, sembrava dipinto da Van Gogh. Erano le nove di mattina, e il sole illuminava tutto di una luce tanto vivace che quasi facevano male gli occhi. Dovevi vedere le nostre montagne, erano belle, vive, forti, verdi. Erano verdissime. Dimmi, cosa è la cosa più verde che hai mai visto?
Mmm…forse il Parco della Villa.
Ecco. Immaginati il Parco della Villa, immaginalo in estate. Immagina quel verde che ti commuove, tanto è bello, e dipingilo sulle montagne. A destra e a sinistra. Dal fondo alla cima. Immagina che il verde del Parco della Villa ti circondi, immenso, lontano, e salga fino al cielo. Il cielo. Il cielo di Grosio era il capolavoro di un pittore. Luminoso, trasparente, profondo. Chi ha inventato la parola “azzurro” deve averlo fatto guardando il nostro cielo. Più azzurro di un lago, del mare, dell’oceano. Azzurro più di un lapislazzulo.
Papà.
Dimmi.
Che cosa è un lapislazzulo?
Hai ragione. Scusami, è una parola difficile, e non lo avete ancora imparato a scuola. Beh, lo imparerai. Per adesso ti basti sapere che è una cosa preziosa. Ed è azzurra. Azzurra come il nostro cielo, sotto il quale la squadra del Grosio partiva per andare a Milano a giocare una partita di calcio.
Ma…
Dimmi.
Che cosa è Milano? E che cosa è il calcio?
Ma che cazzo vi insegnano a scuola?
Come?
(il padre si ricompone) Ehm, niente. Dicevo: Milano. Milano è un posto lontano. È un posto senza le montagne e senza i campi e senza gli animali, ma è un posto ricco. Ci sono tanti soldi, ci sono persone che potrebbero comprarsi mille case grandi come la nostra. E però non hanno il cielo azzurro. E il calcio…il calcio è un gioco. Si fa con la palla, undici per parte. Bisogna tirarla nella porta degli altri, si dice “fare gol”, e bisogna fare un gol in più dell’altra squadra. E insomma quel giorno la squadra del Grosio e i suoi tifosi andavano a Milano per una partita di calcio, tutti insieme sul pullman.
Come quando andiamo in gita.
Esatto, come quando andate in gita. Erano in tanti ed erano contenti, ma quando arrivarono si accorsero che i colori di Milano erano sbiaditi. Le case erano grigie, il cielo sembrava stanco e ammalato. Ma loro erano pieni di energia e non volevano ammalarsi, e così tirarono fuori i loro colori, i colori della squadra del Grosio. Avevano bandiere, maglie, sciarpe, e coprirono tutto di granata, il nostro colore, il colore delle squadre più romantiche. E poi, quando finirono di colorare Milano, la partita cominciò. Scesero in campo, in undici come ti dicevo, due attaccanti, quattro difensori, quattro a metà, e in più il portiere.
Mmm…e che cosa fa il portiere?
Il portiere prende la palla con le mani. Il portiere fa i miracoli. O almeno, il nostro li faceva. Lo chiamavano Pota, era alto e grosso ed era difficilissimo fargli gol, perchè era anche veloce e coraggioso. Era come un bisonte selvaggio che aveva imparato a ballare. A destra c’era Simic, che invece era piccolino, ma un piccolino grande, di quelli che fissano gli avversari negli occhi senza mai abbassare lo sguardo. In mezzo, invece, c’erano due giganti: uno lo chiamavano King, il re, l’altro Tacito, come l’imperatore romano. Un re e un imperatore: in difesa comandavano loro, e se lo volevano non passava nessuno. Sulla sinistra invece c’era Musina, un furetto che non stava mai fermo, sgommava, sembrava avesse in corpo un motorino. Davanti a lui, a centrocampo, Cicala, che tanti anni prima si era fatto male, ma poi era tornato e correva più veloce di tutti. A destra c’era Wolly, che era stato un attaccante ma un giorno c’era bisogno di qualcuno a metà e lui aveva detto sì e nessuno lo aveva più spostato. In mezzo Porta, il capitano, che aveva iniziato a giocare nel Grosio quando era grande come te e quel giorno era il più vecchio. Ma correva ancora come un bambino. Vicino Python, che aveva gambe lunghe come i tentacoli di una piovra e riusciva sempre ad arrivare sulla palla prima degli altri. In attacco c’era un mago, Nick, che con giochi di prestigio sbalorditivi faceva arrabbiare avversari che non riuscivano mai a capirlo. Con lui Micelin, una simpatica canaglia che non si fermava mai. E in panchina c’era Piergiacomo, l’allenatore, il comandante che quella domenica era a Milano col manico in mano a dare gli ordini. E poi, sulle tribune, i tifosi e il granata del Grosio.
Giocammo una partita perfetta, certo gli avversari erano capaci e ci infastidivano, ma noi riuscimmo a contenerli bene e colpirli. Loro in difesa non avevano imperatori nè re, e dopo venti minuti Cicala si infilò dietro a tutti e tirò in porta alla destra del portiere. La palla viaggiava lenta, e non si capiva se sarebbe entrata ma Micelin invece aveva capito tutto da tempo e la spinse in rete prima che la fermasse un difensore. Era il gol dell’1-0. Poco dopo Nick fece il secondo gol con una delle sue magie: era vicino alla porta e stava rientrando da destra e sembrava che un difensore riuscisse a fermarlo prima che potesse tirare. Macchè. Nick fregò lui e il portiere con un tiretto a terra, furbo e veloce, verso il palo più lontano. Vincevamo per due a zero, e proprio alla fine riuscimmo a farne un altro. Micelin si ritrovò da solo davanti al portiere, e poteva segnare, e avrebbe segnato, ma decise di passare la palla a Porta, il capitano. Pensa un po’: Micelin era un attaccante, ma sapeva che Porta aveva corso più di tutti nelle partite di quell’anno e non era ancora riuscito a fare gol, e quindi gli passò la palla.
Però.
Cosa.
Doveva volere bene a Porta, questo Micelin.
Gliene voleva. Si volevano tutti bene. Era un piacere vedere quei ragazzi, vederli correre l’uno per l’altro senza mai fermarsi. Lo facevano perchè avevano un sogno, avevano tutti lo stesso sogno. Perchè vedi, non ti ho detto una cosa. Il calcio è un gioco, ma per quei ragazzi era anche qualcosa di più. Era il modo in cui si erano conosciuti da piccoli, il loro modo di stare insieme da grandi. La magia con cui riuscivano ad emozionare la gente. Il piacere di faticare per qualcun altro senza chiedere niente in cambio. Il ricordo di quello che erano stati e degli anni che avevano vissuto. Il sorriso delle persone che avevano incontrato. Il sogno di vincere quella partita per loro stessi, per chi era andato fino a Milano a vederli, per chi li seguiva da Grosio o ancora più su. E quando finì la partita erano felicissimi e si abbracciarono e festeggiarono e cantarono e continuarono a cantare e non si fermavano più. Prima cantarono le canzoni del Grosio, e poi altre, perchè non potevano tenere legata nel silenzio tanta felicità.
E come facevano le canzoni?
Mmm, beh, adesso non me lo ricordo. Però erano belle. Salirono sul pullman e quando arrivarono a Grosio era buio, ma loro non volevano che quella giornata finisse e allora usarono delle torce per illuminare la notte di granata. E poi andarono a casa e cominciarono a pensare alla settimana dopo, perchè ci sarebbe stata un’altra partita come quella, ma stavolta si sarebbe giocata a Grosio, e tutti sarebbero potuti andare a vederli.
Ah! E come è andata l’altra partita? Hanno ancora vinto?
Ah-ah, una cosa per volta. L’altra partita te la racconto domani sera. Adesso è tardi, e dobbiamo ancora finire questa storia: illuminarono la notte di granata, ma poi tornarono a casa e si misero a letto per dormire, chè erano tutti felici ma anche molto stanchi. E ripensarono a quella domenica e a tutte le altre domeniche che avevano passato insieme, e quando si addormentarono senza accorgersi ricominciarono a sognare, e sui loro volti si disegnò un sorriso. E adesso, tesoro, è ora che ti addormenti anche tu.
E l’altra partita?
Te l’ho detto, te la racconto domani.
Me la racconti domani.
Si, domani.
Ok.
Ok.
Papà.
Dimmi.
Posso dirti una cosa?
Una sola.
Grazie. E’ una bella storia.

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